La piccola di casa, la “cocca di papà”, questa era Amelia per il suo papà, questa ero io con lui. Quante volte mi sono sentita “messa alle strette” dalla sua importante presenza, dalla sua personalità solida e avvolgente. Se io avevo un problema lui veniva a darmi una mano, sempre e nonostante i rimproveri di mia madre che considerava quelle attenzioni poco educative; ma lui era così: presente. Non lo era solo con me ma con tutta la sua comunità tanto che i suoi ultimi anni li ha dedicati al sociale, come volontario. Sempre in prima linea, sempre orgoglioso e sorridente.

Ad accorgersi che qualcosa non andava per il verso giusto fummo io e mia mamma, sentivamo papà parlare male, pronunciava male alcune lettere; lui, all’inizio non se ne rendeva conto ma poi ne prese consapevolezza e decidemmo di andare in ospedale dove gli fu diagnosticata una TIA, un attacco ischemico transitorio. Le cose peggiorarono, andammo da un neurologo e lì dopo, specifici accertamenti, arrivò la vera e più infausta delle diagnosi: SLA. Che significa? Cosa succederà? Morirà? Avrei voluto gridare “aiuto”, ma questo aiuto non arrivò: nessun supporto psicologico per me, mio padre e la mia famiglia, dovevamo cavarcela da soli, questo fu da subito chiaro. Mia madre prese immediatamente in mano la situazione, riversando ogni sua goccia di energia per “prendersi cura” di papà; lei lo assisteva in tutto e fino alla fine era completamente coinvolta e determinata a dedicarsi solo ed esclusivamente a lui, ai suoi bisogni, ad alleviare, quanto più possibile il suo dolore. Stefano, mio fratello maggiore, all’epoca lavorava a Trento, ma comunque riusciva ad essere vicino a papà, anche lui completamente coinvolto e “trascinato” dentro questo difficile percorso che la malattia ti impone, dettando i suoi tempi e le sue dure regole. Schierata con noi, la nostra preziosa zia Mariagrazia. Una sorella speciale per papà, con una famiglia altrettanto speciale, che ha combattuto fino alla fine, accanto a noi: senza di loro sarebbe stato quasi impossibile resistere.

Io nel frattempo provavo una rabbia immensa e sconfinata che non riuscivo ad arginare, non accettavo nulla di quella situazione e volevo solo scappare via, ma non si poteva. Non si poteva nemmeno restare un attimo da soli, nemmeno il “lusso” di pregare in silenzio, nulla. Con la SLA in casa non ci sono più angoli in cui poterti nascondere, il tuo mondo si riempie di gente che ruota attorno alla persona malata: con la SLA ti senti estraneo in quello che, fino ad allora, era stato il tuo angolo di mondo: non mi potevo nascondere. Era un momento molto duro per me e per la mia giovane età; nessuno mi poteva dare ascolto; mio padre malato e nessun luogo in cui rifugiarmi. La risposta a quel dolore arrivò da mio padre, che un giorno sentendomi discutere con mia madre, agitò il suo campanello restituendomi un biglietto con su scritto “NON TI DEVI ARRENDERE”. Oggi quella frase è tatuata su di me, fa parte di me.

Dopo la perdita del mio papà ho deciso di abbracciare la grande famiglia di “IO POSSO”, diventando una volontaria attiva e sempre in prima linea… come il mio papà.

di Raffaella Arnesano.