“Quando ero piccolo ci chiamavano «menomati»; poi siamo diventati «handicappati»; poi «portatori di handicap», poi «disabili», poi «diversamente abili». Nel frattempo, io sono sempre stato «Antonio»”.

Che strano potere che hanno le parole. Ne abbiamo bisogno per descrivere il mondo, dare una forma e un senso a quel che ci circonda. E, al tempo stesso, quella stessa parola rischia di ingabbiare la realtà, di cristallizzarla in un unico aspetto e di non cogliere tante altre sfumature. È proprio ciò che accade con tutte le parole che provano a descrivere il mondo complesso ed eterogeneo della disabilità.

Oggi sappiamo che l’espressione più corretta e rispettosa da usare è “persona con disabilità”, espressione frutto di un lungo percorso di crescita culturale, che intende soffermarsi sul valore di ciascuno e non su ciò che, in maniera più o meno evidente, sembra una “mancanza”, ingabbiando la persona e cucendole addosso l’identità di chi “non ha” o “non può”.

E, anche quando si è animati da buone intenzioni, il linguaggio può svelare un approccio che non è realmente inclusivo. È il caso di chi, pur con l’intento di fare un complimento, si riferisce ai disabili come “eroi” e “guerrieri”, persone da ammirare perché in realtà “più forti di noi,… quelli normali…”; non c’è niente di automaticamente eroico in una disabilità. Ogni persona, in quanto tale, ha dei limiti, ciascuno i suoi. Oppure, c’è chi porta avanti una visione edulcorata della disabilità, usando espressioni come “i nostri angeli” o “i nostri ragazzi” mettendo in pratica una costante infantilizzazione dell’interlocutore, quindi sminuendone il valore.

No. Le persone con disabilità non sono angeli, né eroi. Non sono migliori né peggiori. Sono persone. E, come tali, hanno potenzialità e limiti, bisogni e risorse, pensieri, idee, sogni, emozioni, corporeità… È il misterioso intreccio di tutte queste cose che rende ciascuno degno e unico.

Perché, al di là delle etichette, ogni persona è unica. Come Antonio.