Intervista a Elisabetta Bertoglio, psicologa, psicoterapeuta e supervisor del progetto “Resilienza a Domicilio”
Dott.ssa quanto è importante per una persona affetta da SLA ricevere il supporto psicologico fin dal momento della diagnosi della patologia?
Penso che questo sia un punto fondamentale. L’inizio di un percorso così difficile e doloroso è sicuramente un momento di frattura importante. Sono fermamente convinta che in quel momento il supporto psicologico sia assolutamente necessario per aiutare tutti a trovare delle risorse ed un ordine in un momento di caos estremo. Purtroppo ciò avviene raramente, forse in alcune strutture ospedaliere, ma sempre per un tempo limitato. Secondo il mio parere la gestione di una patologia così invalidante dovrebbe prevedere il supporto psicologico del paziente e della famiglia durante il tempo di vita segnato dalla malattia.
Qual è il primo sentimento che si mette in atto quando arriva una diagnosi del genere? Qual è la prima emozione?
Dipende. Dipende dalla storia individuale. Una sentenza così drammatica che ti impone una perdita delle competenze ti scuote profondamente e da un primo momento di smarrimento si passa a dover gestire un vero e proprio processo di lutto con tutte le emozioni che lo accompagnano in maniera non lineare. Una cosa importante da mettere in evidenza è che sono le risorse e le strutture difensive di una specifica struttura di personalità ad attivarsi dinnanzi una diagnosi grave che riguarda la propria salute. Chi è abituato a razionalizzare proverà a farlo anche in questa particolare situazione; chi è emotivo scivolerà nelle proprie emozioni; chi non ha mai deciso, lascerà, anche in questo caso, la decisione a qualcun altro, per esempio.
Cosa accade nella “sfera famiglia” quando entra la malattia e dunque il dolore?
Una situazione del genere fa anche emergere tutte le condizioni che definiscono quella specifica sfera familiare. Tutta la famiglia inevitabilmente proverà sconforto, disorientamento, rifiuto, incredulità, rabbia, angoscia, paura e queste fasi si avvicendano in un turbinio molto impattante. Direi che la famiglia è un’entità a sé stante, con degli equilibri propri. Le relazioni che intercorrono nel nucleo familiare possono essere messe in scena attraverso dei ruoli caratterizzati da modalità più o meno rigide. Tali modalità, nei momenti di stress, danno luogo a una serie di risposte che si attualizzano attraverso interazioni poco spontantanee e ripetitive che non sono sane. Quindi se vogliamo fare una generalizzazione su ciò che accade quando irrompe una malattia degenerativa all’interno del nucleo familiare, possiamo dire che ogni individuo di quel particolare nucleo tenderà a irrigidirsi in quelle che sono le risposte difensive che ha imparato nell’arco della sua vita; a questo seguirà una fase di assestamento nella quale alcuni riusciranno a crescere, trovando un equilibrio all’interno di questa situazione. Nella maggior parte dei casi però ciò che abbiamo descritto non avviene così facilmente ed è per questo che una figura professionale di sostegno familiare sarebbe fondamentale per affrontare al meglio il cambiamento che ti impone una patologia così grave e impattante.
Come coinvolgere i figli in questo complesso processo di cambiamento?
Prima di tutto dipende dall’età dei bambini, ma direi che la prima regola è non negare mai la realtà. Permettere ai figli di stare vicino ai genitori o alle figure affettivamente significative in una famiglia è fondamentale, anche nella malattia . Se gli adulti possono nominare il dolore e la morte possono anche portarla all’attenzione dei propri figli. I bambini ti fanno domande e noi adulti abbiamo il dovere di dare delle risposte anche se sono difficili. Se un bambino ti domanda “ma la mamma morirà”, l’adulto dovrà dirgli sempre la verità, anche se è particolarmente dura, così da permettergli di vivere nel modo migliore questo tempo di vita segnato dalla malattia e da aiutarlo a prepararsi a separarsi. Ovviamente secondo un principio di cura ed attenzione che permetta di narrare la verità e di favorirne l’espressione emotiva, dando ai figli il permesso di riconoscere ed esprimere angoscia, tristezza, rabbia e paura. Il bambino chiuso fuori dalla stanza è un bambino violato, non rispettato nel suo bisogno di essere parte e di stare vicino.
Intervista di: Raffaella Arnesano
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