Molte persone che si occupano di inclusione sottolineano, giustamente, l’importanza dell’attitudine mentale nell’affrontare i disagi causati da una malattia o da una condizione di disabilità. Subire passivamente le limitazioni, chiudersi, rinunciare o attendere che sia sempre il mondo esterno a fare il primo passo e a prendersi cura di noi non fa altro che peggiorare la situazione e precluderci la possibilità di una vita ancora soddisfacente e capace di felicità. Anche Gaetano ce lo ha insegnato, avendolo vissuto in prima persona. Del resto, non siamo proprio noi ad aver scelto l’espressione “io posso” addirittura come nome in cui identificarci?

Vivere secondo questa prospettiva, però, non deve portare a sminuire il peso delle relazioni sociali e del contesto. Siamo persone. Viviamo sempre in una rete di reciprocità e interscambio con gli altri e il territorio. Dimenticarsi di questo, affermando in maniera semplicistica che “è solo questione di volontà” del singolo e che “se vuoi, puoi” porta addirittura a intendere la fragilità come una “colpa” di qualcuno che non si dà abbastanza da fare. Affermare che “tutto dipende dalla volontà del singolo” è un’ottima scusa per chi ha il dovere sociale di abbattere le barriere architettoniche e non lo fa; o per chi deve garantire i livelli minimi di prestazione sanitaria e invece continua a tagliare le risorse invece che rispondere ai bisogni di assistenza delle persone malate.

L’autonomia e la proattività di ciascuno, per esprimersi appieno, hanno comunque bisogno di una rete di supporto, di istituzioni attente, di persone capaci di mettersi in gioco in prima persona, riscoprendo una parola spesso abusata ma ancor più spesso dimenticata: solidarietà. “Solidarietà” significa sentirsi coinvolti nella costruzione di una felicità collettiva, evitando sia la tentazione dell’assistenzialismo (che passivizza i destinatari delle misure di aiuto) sia quella del disinteresse (che invece scarica su di loro tutto il faticoso lavoro di inclusione sociale).

“Aiutami a fare da solo” non è solo un motto pedagogico della scuola montessoriana, ma può diventare una visione che sollecita ciascuno ad essere parte “della luce che ha spezzato la solitudine” (Pablo Neruda, Ode alla solidarietà).